Il bando per la concessione degli stadi? Necessario ma non semplicissimo: in Italia, per esempio, i casi restano pochissimi e frutto di anni di lavoro. Le differenze? A Messina manca la spinta della proprietà e una categoria che generi introiti.
JUVENTUS – Quando si parla di stadi di proprietà non bisogna commettere l’errore di semplificare il tutto, in Italia non è prevista la cessione da parte di un Comune di un’area demaniale, ammessa quella invece di un bene come uno stadio. Il famoso Juventus Stadium, ora Allianz Stadium dopo l’accordo commerciale con la società tedesca, è infatti una struttura di proprietà su un’area in concessione a 99 anni a favore della Fc Juventus. Nessuna differenza – tranquillizziamo i puristi -, però, con una vera e propria cessione dell’area: perché i contratti che regolamentano l’accordo tra la società torinese e il Comune piemontese sono chiari. Il 18 giugno 2002, dopo trattative ininterrotte e condotte già da Gianni e Umberto Agnelli, la Juventus firma l’accordo con il Comune per la concessione a 99 anni del diritto di superficie, con la possibilità di sfruttamento commerciale per un’area di 35mila mq. dal costo finale di 25 milioni di euro. Da quel momento, quindi, la Juventus diventa l’effettiva proprietà dell’allora stadio Delle Alpi dove continuerà a giocare fino alla stagione 2005/06, ricevendo tra l’altro un affitto annuo da parte del Fc Torino per la disputa delle proprie gare interne. Al termine di quell’annata la Juventus verrà retrocessa in Serie B dopo il processo Calciopoli, questo non rallenterà l’iter per la costruzione del nuovo impianto. Fino al 2008 il Delle Alpi resta in attività solo per eventi slegati al calcio, successivamente viene demolito per far sorgere lo Juventus Stadium che verrà inaugurato nella stagione sportiva 2011/12. Nel frattempo la Juventus gioca le proprie gare al Comunale, poi diventato Olimpico: struttura che il Comune avrebbe, poi, ceduto al Torino (che ci gioca attualmente, mentre la Primavera disputa i propri incontri al Filadelfia dopo la concessione approvata) per la cifra di 6 milioni con la clausola di ristrutturazione entro le Olimpiadi invernali del 2006. La società granata, però, andrà in pre fallimento tanto da dover essere il Comune a garantire l’esborso per ammodernare la struttura. Concessione a 99 anni uguale cessione, ecco perché: la Juventus è proprietaria della struttura ma non dell’area che ha invece in gestione per 99 anni con contratto rinnovabile, così da non rischiare l’applicazione dell’art. 953 del codice civile che porterebbe il Comune a divenire proprietario dello stadio dopo la scadenza del diritto di superficie.
UDINESE – Caso simile a quello della Juventus è quello della società friulana guidata dalla famiglia Pozzo. L’Udinese gioca le proprie sfide interne allo stadio Friuli dal 1976. I primi contatti con l’amministrazione comunale per una gestione pluriennale dell’impianto risalgono al 2010, un iter che però trovò lungaggini nella sua realizzazione. Il primo accordo, infatti, fu quello che portò a uno sconto sull’affitto a seguito degli oneri ordinari e straordinari per la gestione quotidiana. Nel giugno del 2011 il Comune e l’Udinese trovarono un accordo per una convenzione pluriennale che, però, non arrivò neanche a due anni dato che nel 2012 fu pubblicato il bando per la concessione a 99 anni della struttura. Nel 2013, finalmente, l’Udinese firma l’accordo con il Comune e inizia i lavori di ristrutturazione del Friuli che dureranno fino al 2016. La concessione del terreno costa 4,9 milioni di euro alla società, più 21 di obblighi di ristrutturazione. Parte della cifra, l’80%, viene elargita tramite il Credito Sportivo. Lo stadio viene ridisegnato sia in capienza che in servizi per il pubblico. Gli scontri con la politica, però, non terminano: lo stadio viene denominato Dacia Arena come da accordo commerciale con la casa automobilistica; decisione contestata dal Comune che si rivolge al Tribunale di Udine per far rimuovere la scritta sull’esterno della struttura in quanto pubblicità non conforme agli accordi. La ragione, in prima battuta va all’Udinese che mantiene la sponsorizzazione, processo che continua con la sentenza del Consiglio di Stato che dà ragione al Comune friulano. Ricorsi e controricorsi ancora in discussione.
ATALANTA – Altro giro, altra corsa: si rimane al Nord, non certamente un caso, e si va a Bergamo. L’Atalanta passa nelle mani della famiglia Percassi nel giugno del 2010. Antonio Percassi non è una figura da sottovalutare per lo sport bergamasco: le sue 110 presenze in maglia nerazzurra ne fanno una bandiera del club, che ha già presieduto tra il 1990 e il 1994. Nel frattempo la holding Odissea srl, della quale è il presidente, accresce la sua forza con lo sviluppo di marchi come Kiko e Bullfrog, oltre allo sviluppo delle reti di vendita di Lego, Gucci, Nike, Starbucks e Victoria’s Secret. La sua ascesa nel calcio italiano è evidente, come quella dei risultati sportivi della sua Atalanta. La svolta arriva nel 2017 quando la società bergamasca ottiene la cessione dello stadio Atleti Azzurri d’Italia. Iter complesso anche quello che vede Atalanta e Comune arrivare alle firme dopo la scrittura di un bando pubblico e un’asta alla quale partecipa anche l’Albinoleffe. Il 9 febbraio 2017 il Comune pubblica il bando per la vendita dell’Atleti Azzurri d’Italia: il prezzo previsto è di 7 milioni 826 mila euro più Iva; l’asta si svolge con offerte in busta chiusa dal valore pari o maggiore a quello richiesto. La società dei Percassi si aggiudica l’immobile per una cifra del 10% maggiore rispetto alla base d’asta. Il bando, inoltre, prevede la presentazione di un progetto di ristrutturazione dell’area entro 6 mesi dall’acquisizione. Dopo un ricorso, rigettato, dell’Albinoleffe la società nerazzurra firma l’atto di vendita col Comune nell’agosto del 2017. Nella foto in basso potete vedere un estratto del bando comunale con gli obiettivi da ottenere una volta acquisito il bene all’asta. Infatti nei contratti di concessione o vendita i Comuni puntano alla riqualificazione dell’area come garanzia.
SASSUOLO – Ultimo esempio di società calcistiche proprietarie di impianti sportivi. Anzi no, perché il caso Sassuolo è probabilmente il più particolare in Italia. Nel 1994 il Comune di Reggio Emilia decide di costruire un nuovo stadio vista l’inadeguatezza del Mirabello e la sua particolare posizione geografica al centro della cittadina. L’allora amministratore delegato della Reggiana, Franco Dal Cin, prende l’onere della progettualità che viene portata avanti grazie a capitali totalmente privati per una cifra finale di 11 milioni di euro. Nel 1995 la Reggiana gioca le sue gare interne nel nuovo stadio rinominato Giglio. La società emiliana, però, finisce presto in difficoltà economiche vista anche la decadenza sportiva. Lo stadio finisce in amministrazione controllata con il curatore fallimentare a gestirlo e la Reggiana a giocarci in comodato d’uso. Dopo varie ristrutturazioni la svolta arriva nel 2013: il Sassuolo viene promosso in Serie A, impossibilitato a giocare nell’impianto cittadino decide di spostarsi a Reggio Emilia. Inizialmente gioca in alternanza alla Reggiana, formazione all’epoca in Serie C. Il 3 dicembre 2013 il Comune di Reggio Emilia riceve due offerte per l’acquisizione della struttura: la prima arriva dalla controllante della Reggiana (società sportiva che poi fallirà); l’altra dalla Mapei, società di proprietà di Giorgio Squinzi, già presidente di Confindustria e patron del Sassuolo. La Mapei vince l’asta e ottiene la struttura che, dopo un ulteriore restyling, verrà rinominato Mapei Stadium. La Mapei, così, diventa proprietaria dello stadio di Reggio Emilia e concede al Sassuolo (con il quale condivide il proprietario) di giocare nella struttura. Lo stadio emiliano è stato, anche, teatro delle gare interne europee dell’Atalanta vista la mancata licenza Uefa per l’Atleti Azzurri d’Italia.
IL CASO MESSINA – Torniamo a casa nostra: il Comune di Messina si impegnerà, anzi si sta già impegnando, per la scrittura di un bando che prevederà la concessione del diritto di superficie e l’eventuale vendita dell’immobile Franco Scoglio. Abbiamo raccontato e descritto i casi italiani più noti, sicuramente una buona base ma difficilmente replicabile in riva allo Stretto, almeno in toto. Le differenze, come premesso all’inizio, sono due e importanti: la categoria sportiva e la proprietà. La famiglia Sciotto ha dichiarato pubblicamente di voler fare un passo indietro, società quindi in vendita. Questo comporta che il bando sugli stadi passa dall’essere uno strumento di rafforzamento della società calcistica (come da esempi sopra citati) a primo fattore per attirare nuovi investitori in città. Il vantaggio che gli altri Comuni avevano, infatti, era quello di poter interloquire con società già presenti e dalla disponibilità economica a loro nota. A Messina, invece, c’è da costruire su basi diverse. Nessun dramma però perché un bando pubblico (in teoria) si basa oltre che sui limiti di legge anche sul bisogno di sviluppo dell’area interessata. La categoria sportiva diventa un limite superabile, in quanto il compratore X potrebbe non aver problemi ad affrontare una scalata sportiva, va valutato però come l’esborso sullo stadio abbia sempre calmierato le campagne acquisti delle società interessate (esempi limite quelli di Arsenal e Tottenham in Inghilterra). Ovvio, però, che i costi di gestione andranno proporzionati alla Serie D attuale. Ultimo punto è il passaggio di proprietà: scripta manent e quindi l’Acr Messina resta in vendita. Ovvio che l’attrattiva sia poca, chiaro che il bando di concessione diventi il perfetto fattore per attirare compratori. Inutile nascondersi dietro un dito, le due cose dovranno muoversi di pari passo: così da far partecipare al bando, per l’acquisizione in concessione dell’area, il “nuovo Messina” o la società pronta a rilevarne la proprietà (come nel caso Mapei-Sassuolo).