Messina, Raffaele Novelli: il tecnico, l’uomo.

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Pubblicato il 8 Luglio 2021 in Primo Piano, Storie

Un’ora e mezza al telefono con il tecnico che ha riportato il Messina in Serie C. Il campo da gioco è solo il contorno di questa conversazione. Lo sfondo di una chiacchierata in cui il Novelli allenatore racconta il Novelli uomo.

«Io non ho ancora avuto l’onore di sentire la spinta della Curva Sud. Ma so quello che vuol dire, perché quell’immensa passione l’ho assaporata da avversario. Nel tifo giallorosso ho sempre avvertito soprattutto un aspetto. Non so come spiegarla, una sorta di voglia di riscatto. E poi un’altra cosa…». 

Cosa, mister?

«Il senso di appartenenza».

Questo è l’incipit. Focalizzato sull’elemento senza cui il calcio è nulla, cioè il tifo. Poi il resto. Sulla cima più alta, con mister Novelli. L’aria fresca di un campionato appena vinto. Che rimuove le ansie, che smonta la corazza. Che trasforma un allenatore tendenzialmente di poche parole nell’uomo che inizia a viaggiare forte tra riflessioni e aneddoti.

«A Messina forse nessuno sa che Marc Zoro in Italia l’ho portato io. L’ho scoperto in un campetto di calcio a 7 ad Abidjan, in Costa d’Avorio. Il calcio ha permesso alla sua famiglia di vincere la fame». 

Meno di una settimana fa il capolinea di un torneo logorante. Il trionfo, il pianto…

«È stata una battaglia di nervi in cui è arrivato in fondo chi ha avuto più tenuta mentale. Quando sono andato incontro ai tifosi, in quel piazzale, nella folla ho incrociato lo sguardo di mio fratello, che aveva fatto 600 di chilometri per farmi una sorpresa. Piangeva e mi ha abbracciato». 

Piangeva anche il patron Sciotto, che lo ha detto chiaramente: Novelli non si tocca.

«Fa piacere avvertire la stima della proprietà. Vedere che i loro sacrifici – e non mi riferisco ai soldi – sono stati ripagati. Ora i vertici dovranno innanzitutto gestire il capitolo iscrizione in C, poi ci sarà tempo per discutere di futuro». 

Di tempo, in realtà, non è che ce ne sia tanto. 

«Ho fatto una quindicina di campionati in C e ormai ho più di qualche capello bianco. La differenza non la fanno i tempi, né le “figurine”. Il presupposto sono pianificazione ed organizzazione. E la scelta di uomini come i ragazzi che ho allenato quest’anno. Nel 2011 ho centrato la finale playoff con la Pro Patria. Alcuni di quei calciatori dormivano negli spogliatoi. Non abbiamo preso stipendi per 7 mesi, ma avevamo dei valori dentro che ci hanno reso più forti di ogni avversità: è l’essere che ti fa arrivare in fondo alle cose». 

Però la prossima Serie C è un mosaico di anime con storia e ambizioni forti. E, in certi casi, anche soldi. Tanti soldi.

«Guardi, io quando ho allenato il Manfredonia era la squadra più giovane d’Italia. Su altre panchine c’erano allenatori importanti, penso ad Allegri o Mondonico. Abbiamo fatto un gran campionato con tantissimi calciatori che arrivavano dalla Primavera». 

Qual è il presupposto per lasciare traccia?

«L’organizzazione del club. Che deve partire dalla cura dei dettagli, di quelle piccole cose, a volte cose apparentemente umili, che fanno la differenza. Piccole cose, ma fatte bene».

Basta, questo, a non fare da comparsa?

«È la base, ma non basta. L’altro presupposto imprescindibile è poter contare su quei 5-6 calciatori esperti. Con qualità umane, con spiccato senso di appartenenza e lagame con la storia che rappresenta la tua maglia. Però una cosa devo dirla».

Prego…

«Non pensate che la Serie C sia la Serie A. Spesso in terza serie ci sono squadre di grande qualità che puntualmente non arrivano in fondo. E poi formazioni sottovalutate che si rivelano puntualmente delle piacevoli sorprese. Mentalità e organizzazione sono le colonne di un progetto. E ancora gli uomini, che vengono prima dei calciatori».

E non erano in pochi, nel suo Messina, considerato il risultato finale…

«Una squadra fantastica. Io sono felicissimo per loro e sono altrettanto felice per chi ogni giorno ha lavorato dietro le quinte. Uomini fondamentali alla causa, che con senso di appartenenza e umiltà hanno contribuito in modo decisivo alla causa. Il motore del calcio sono questi personaggi. Poi questo è un mondo in cui ci sono molte cose per me inaccettabili».

Cosa, mister?

«Non sono mai stato uno “yes man”. Non lo sarò mai. Mi è capitato di restare fermo quando le cose non mi convincevano. E in quelle circostanze, senza rancore, restavo a casa a guardare le partite degli altri per approfondire le mie conoscenze. Non sono un allenatore a busta paga. Mi piace il calcio pulito, sano, quello fatto di valori veri. Da calciatore ero di questa idea. Da allenatore l’ho rafforzata, tentando ogni giorno di tramettere questi principi anche alle mie figlie. A 56 anni non potrò più tornare indietro. Nel calcio, quando non ti leghi a dei carri che fanno un certo tipo di calcio, ti precludi delle chance. Ma sta a te scegliere. Magari sai che avrai molti meno soldi da portare a casa, ma vivrai libero. E posso garantire che essere libero rende felice».

Però, evidentemente, ha chiaro anche quello che del calcio le piace, mister.

«Il lavoro di chi sta sempre nell’ombra. Dei magazzinieri, di chi non appare mai. Mi piace sapere che la gente attraverso il calcio può vivere dei momenti di gioia, che può sentire un senso di riscatto dai problemi. Mi piacciono quei 30-40 tifosi che ogni domenica salivano sulla collinetta del San Filippo a sostenerci, sfidando ogni logica, per amore. Per una fiducia incondizionata. Mi piace lo spirito di questo Messina. Lo spogliatoio, l’umanità dei miei calciatori. Il senso di appartenenza. L’aver capito cosa rappresenta quella maglia, la storia che c’è dietro, la passione di una città bellissima. Tu come allenatore sei un piccolo puntino che per questa gente hai fatto, insieme agli altri, qualcosa di grande».

Ha mai temuto di non poter raggiungere il traguardo?

«Lo dico con totale sincerità: mai, nemmeno per un istante».

E quando, invece, ha avuto consapevolezza piena che l’obiettivo era lì, ad attendervi?

«Al fischio finale della partita di andata con la Gelbison. Quando la squadra ha lasciato il terreno di gioco. Ho guardato uno ad uno i miei ragazzi: una squadra stremata, che in inferiorità numerica aveva riacciuffato il 2-2 su un terreno impraticabile, chiudendo i campani negli ultimi 30 metri. Quello è l’attimo in cui ho sentito che eravamo forti. Guardate Addessi e Lavrendi. Con le stampelle, non riuscivano nemmeno a camminare ed erano sempre al fianco della squadra. E la squadra ha combattuto anche per loro».

Però i momenti difficili non sono mancati.

«Sarebbe irreale, perché il calcio questo è: momenti buoni e momenti meno buoni. Il finale è stato duro, la fase in cui il Messina ha perso un po’ della sua identità di gioco. E questo è accaduto perché nelle ultime 10 partite eravamo meno liberi e spensierati. Iniziavamo a riflettere, ad accusare il peso della responsabilità. Il pallone mi sembrava una mongolfiera».

Anche per la pressione di chi inseguiva, immagino.

«L’Fc Messina è stato per noi il più grande stimolo. Ci ha fatto crescere in fretta e in corso d’opera. Soprattutto dopo la sfida di ritorno. Non nego di essermi un po’ arrabbiato, nonostante i tre punti conquistati. Loro, approfittando del terreno in quelle condizioni – che ci penalizzava tanto -, giocavano palla lunga su Caballero e ci hanno messo in grande difficoltà. Io però sapevo che quello non poteva essere il mio Messina. All’andata, però, dopo aver perso ed essere usciti tra gli applausi ho detto ai ragazzi che quegli applausi dovevamo trasformarli in qualità e responsabilità. E così è stato».

Sappiamo che qualcuno, a campionato in corso, le ha fatto la corte…

«Ho ricevuto due proposte. Una dalla A greca e l’altra dalla seconda serie francese. A giugno».

E avrà anche risposto in qualche modo…

«Certo, con un “no” secco. Pur non sapendo ancora cosa sarebbe successo alla fine. Ma sarebbe stato vile: non ho mai barattato i miei principi col denaro. E mai lo farò».

Una filosofia di vita immagazzinata lontano dal terreno di gioco, a quanto pare. 

«Nel 1987 emigrai in Svizzera. Fiero di aver scaricato mobili, lavato cessi, lavorato come magazziniere per Olivetti, ai tempi dei primi M24. La gavetta serve per essere più forti, nella vita. Per evitare qualche errore. Per sapere, capire e apprezzare ciò che hai. Non mi piacciono quegli allenatori e quei calciatori che si lamentano spesso: siamo dei privilegiati. E non mi piacciono i calciatori che non ci pensano un attimo a baciare la maglia. Perché tu quella maglia la devi baciare quando te ne innamori, quando sai di poterla rispettare. Io nella mia vita prima ho capito qual è il posto dell’uomo in questo mondo. Poi ho iniziato a fare l’allenatore».

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